domenica 15 aprile 2012

Le Streghe e lo Stretto di Barba

Lo stretto di Barba è uno dei luoghi in cui, secondo la leggenda, le streghe di Benevento (o janare) si radunavano per praticare i propri riti magici.
Si tratta di una gola situata lungo la via che unisce Benevento ad Avellino, costeggiando il fiume Sabato. Ancor oggi è possibile scorgere il boschetto sinistro, bagnato dall’acqua del Sabato e ai piedi del quale sorge oggi una chiesa abbandonata, dove pare si trovasse il leggendario noce di Benevento.
 Il noce fu fatto poi abbattere da San Barbato intorno al 665 d.C., ma la leggenda vuole che l’albero sia risorto ripetutamente per opera del Demonio.  Nel dialetto beneventano non esiste la strega, ma la janara. E' con tale nome infatti che si indica una donna, che possiede poteri magici, conosce le virtù delle erbe, pratica alcune operazioni mediche. La figura della janara appartiene al patrimonio folclorico, la strega invece è una figura letteraria, confezionata già in età classica, ma soprattutto moderna, con caratteristiche andate via via perfezionandosi e configurate in un repertorio ben consolidato, grazie agli scritti di esponenti della cultura clericale dal Medioevo in poi, i quali, attraverso un lungo processo, ne selezionarono gli aspetti discriminanti, utilizzando materiale della provenienza più varia.
L’etimologia proposta per il termine popolare janara metteva in connessione tale nome con il latino ianua= porta, in quanto essa è insidiatrice delle porte, per introdursi nelle case.
Presso gli usci si ponevano quindi scope o sacchetti con grani di sale, in modo che, se la janara riusciva ad entrare, sarebbe stata costretta a contare i fili della scopa o i granelli di sale, senza poter venire a capo del conto. L’alba sopraggiungeva a scacciarla, poiché non si accorgeva del passare del tempo, impegnata nell’insulsa operazione. Gli oggetti posti a tutela delle porte infatti hanno insite virtù magiche: la scopa per il suo valore fallico, oppone il potere maschile e fertile a quello femminile e sterile della janara; i grani di sale sono portatori di vita, poichè un’antica etimologia connette sal(sale) con Salus(la dea della salute).
Per Piperno, l’origine del nome deriva dal fatto che le streghe per aerem nare sentiantur dum feruntur ad ludos oppure dal fatto che il nome di una delle Lamie del tartaro era Duchessa Iana.
Passeggiando per la città, trovo due signori disposti a raccontarmi nei dettagli i passaggi storici di questa leggenda: il signor Antonio e il signor Vincenzo, due anziani signori che si divertono a rendermi noto qualche episodio particolare. Ai libri e ai manoscritti, preferisco il loro racconto, che darà quel tocco giusto di invenzione e di genuinità. La storia nasce intorno ad un antico noce, posto sulle sponde del fiume Sabato. Qui, nelle notti tra il venerdì e il sabato, si radunavano le janare, streghe dalle cattive intenzioni che giravano nei dintorni con l’obiettivo di diffondere tristezza e fare dispetti di ogni genere.
Di giorno le janare erano semplici donne, alcune di esse erano anche sposate e avevano dei figli. Ma nelle notti di luna piena e ogni sabato si trasformavano, segnando il loro passaggio con filtri magici che potevano colpire chiunque.
Anche gli animali! Racconta il signor Vincenzo che, una trentina di anni fa, trovò il suo cavallo agonizzante nella stalla, molto sudato e con la criniera intrecciata. Secondo lui, era stata la janara a cavalcarlo per tutta la notte, fino a farlo morire per una crisi cardiaca, per punire la sua famiglia. In realtà, ci sono tanti episodi simili nel circondario beneventano. Si dice addirittura che nella provincia ci fosse una scuola di streghe. La chiave per accedere a questa scuola era la capacità di volare sopra i tetti o di riuscire a far impazzire i bambini oppure rovinare la gravidanza alle giovani donne. Ma come si diventa janara? “Janara si nasce, non si diventa” ammonisce il sig. Antonio. Qualsiasi donna, infatti, che veniva alla luce nella notte di Natale era destinata a diventare una janara.
Come ci si difendeva? Innanzitutto era assolutamente proibito pronunciare il loro nome. Poi se ci si accorgeva improvvisamente di essere “in compagnia” di una janara, bisognava incrociare le gambe e dire: “Oggi è sabato a casa mia” oppure bisognava prenderla per i capelli e dire: “Tengo ferro”. Inoltre, era usanza di molti mettere dietro le porte scope o sacchi di sale, in modo che se qualche janara fosse entrata in casa, prima di agire, doveva contare tutti i granelli di sale, oppure tutte le fibre delle scope. Questo serviva a far distrarre la janara fino all’alba, momento in cui perdevano potere. Inoltre, chi era curioso di vedere una janara poteva farlo nella notte della festa di San Giovanni: bastava mettersi sui “crocicchi” (dei luoghi angusti) e appoggiare il mento su una forca. Sicuramente, questo è uno di quei casi in cui la realtà si confonde con le credenze e le dicerie popolari. Credenze e dicerie che nel corso del tempo si sono arricchite di particolari diversi che spesso hanno finito per stravolgere l’identità storico-culturale della leggenda stessa. Ma va ricordato, che a margine di ogni leggenda c’è un fondo di verità. 

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